5 CD di Massimo Urbani a soli 60 €
Il
meglio del più grande jazzista Italiano di tutti i tempi Massimo Urbani
Franco Mondini
Massimo Carabetta
146 360° DEGREES
AEUTOPIA CON RON BURTON, CAMERON BROWN, B.
HARRIS
160 DEDICATION TO A. AYLER E J.
COLTRANE CON L. BONAFEDE, F. DI CASTRI, P. PELLEGATTI
196
VIA G.T. GIOVANNI TOMMASO Q.TET FEAT MASSIMO URBANI, D. REA, P. FRESU.
R. GATTO
208 EASY TO LOVE CON F.DI CASTRI, L. FLORES, R.
GATTO
257 THE BLESSING CON DANILO REA, G. TOMMASO, ROBERTO
GATTO guest MAURIZIO URBANI, SAX TENORE IN DUE
BRANI
un grande protagonista del jazz
contemporaneo
Massimo Urbani é stato uno dei personaggi di maggior rilievo nella storia
del jazz italiano ed europeo ed un ammirato solista da molti musicisti di
spicco del jazz americano come Sonny Stitt, Kenny Barron, Bobby Watson, etc.
Nato a Roma nel 1957 da una famiglia molto numerosa di immigrati abruzzesi
di umili origini (suo padre faceva il bidello in un liceo romano) rimase
orfano di madre fin da bambino e si dedicò giovanissimo allo studio del
sassofono cominciando ben presto la vita del musicista di strada.
Dopo gli esordi al conservatorio di Santa Cecilia a Roma nei corsi di jazz
tenuti da Giorgio Gaslini si rivelò da subito un formidabile talento
improvvisativo dalla grande inventiva con una voce lirica, graffiante,
fluente e piena di pathos, legato a filo doppio al senso del blues in cui
era possibile ravvisare gli echi sia di John Coltrane che di Ornette
Coleman e soprattutto di Charlie Parker che rimase per sempre il suo
principale ispiratore.
Artista autentico e sincero, sapeva unire una grande energia ad un
commovente lirismo in una musica vorticosa e di forte impatto drammatico,
che bruciava nell’improvvisazione tutto il pensiero creativo del suo autore.
Del jazz Urbani amava questa immediatezza, il contatto diretto con il
pubblico, la possibilità di mettersi in gioco aprendo agli altri lo scirgno
dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti più profondi.
Negli anni 80, proprio quando si assisteva ad una crescita senza pari del
panorama jazzistico nazionale, Urbani si trovò, paradossalmente e
vergognosamente, in una condizione di emarginazione, nonostante l’enorme,
immutata stima dei musicisti, almeno di quelli che mettevano la musica, e
non le pubbliche relazione, con "critici di ben scarsa consistenza", al
primo posto.
Strumentista di livello assoluto, sapeva tradurre all’istante, come tutti i
grandi veri jazzisti, le sue idee in suoni, bruciando intuizioni che ad
altri meno dotati, sarebbero serviti per mesi di lavoro, magari progettando
a tavolino e ben lontano dal rischio della esibizione "live" che lui tanto
amava.
E, del mondo del jazz, travolgente
e carico di passioni, viveva anche le abitudini negative che a volte portano
all’autodistruzione, morendo nel giugno del 1993, a soli trentasei anni, per gli
stessi problemi che avevano afflitto l’esistenza del suo principale ispiratore:
Charlie Parker.
Note di copertina del disco "The
Blessing"
Massimo Urbani é morto per una overdose di eroina. Colto da un malore nella
sua abitazione, in via Dati, nel quartiere di primavalle . dove viveva con
tre fratelli e una sorella - dopo aver assunto una dose di stupefacente é
stato trasportato nell’ospedale San Filippo Neri dove é deceduto.
Una morte annunciata, segnata dal fato, dalla cronaca, dall’indifferenza
che fa soccombere il genio in questo mondo di cretini. Come un piccolo
Mozart, Massimo Urbani aveva esordito nel suo mestiere appena sedicenne
facendo stupire ilmondo (segregato) del jazz con un linguaggio disinibito,
libero sciolto assolutamente ispirato, mai accademico....un poeta in mezzo
ai funzionarietti e alle mezzemaniche del jazz nazionale suonato, scirtto,
organizzato. In questo paese dove i media delle tette al silicone della
maggiorata di turno, dei ccapelli di di plastica del presentatore e delle
laringi arruginite della moglie del funzionario, dove un concerto
(concerto?) di ....ottine le colonne che non ha mai ottenuto un concerto
(concero!) di Leonard Bernstein, Massimo Urbani era la vittima designata di
un sistema culturale dove la cultura é assente.
L’overdose che lo ha ucciso gli é stata fornita dall’ignoranza,
dall’indifferenza, dalla grettezza della società bottegaia, distratta e
rozza, attenta solamente alle mode, alla volgarità del luogo comune, una
societàà che si merita, altrove, le batoste di Tangentopoli, e, sempre
altrove, il prevalere di un Leghismo urlatore, sbraitante, pericoloso. Ma
pari responsabilità è attribuibile ai “soliti noti” che dominano la vita
concertistica e festivaliera del jazz in Italia.
Urbani potrebbe essere il personaggio ideale per un racconto di Geoff Dyer
(attualmente in vetrina con il suo bel libro “Natura morta con custodia di
sax”) perché la sua musica, la sua anima paiono in perfetta simbiosi con lo
spirito che anima quei tragici personaggi evocati da Dyer: Monk, Powell,
Baker, Pepper, gli angeli neri della droga vissuta come rifugio per una
schiera di guerrieri sconfitti dalla vita, vincitori sul piano morale nella
guerra contro l’appiattimento della mediocrità, del servilismo. Tra le
tante mezzemaniche del jazz italiano che a Natale spediscono accorate
letterine al critico titolato (per accompagnare un sontuoso impianto Hi-Fi), Urbani era invece capace di mandare al diavolo anche chi gli sarebbe
stato utile per migliorare una carriera, per apparire in un siparietto
televisivo, per avere una copertina sulla rivista che conta, era fedele al
suo primo modello, quel Charlie Parker che insieme con tanta musica ha
sempre dato lezione di orgoglio, di virile coraggio. Un Jazzman anomalo,
violento, solitario, in mezzo al perbenismo ruffiano che circola in questi
ultimi anni. Ma urbani faceva musica con il cuore (e con la testa), gli
altri hanno imparato la grammatica in stile Berklee e rimangono nel branco.
Massimo Urbani ha suonato accanto a molti importanti musicisti americani e
italiani (Beaver Harris, Giovanni Tommaso, Luigi Bonafede, larry Nocella,
Roberto Gatto, Danilo Rea, Chet Baker, Art Farmer, Jack De Johnette, Sonny
Stitt, Phil Woods). Non gli era negato nessun traguardo: la fantasia
sbrigliata, il gusto armonico, un senso ritmico impetuoso e raffinato, un
orecchio sensibilissimo, una energia quasi rabbiosa gli consentivano di
esplorare i più reconditi segreti del brano sul quale stava improvvisando.
Il suo modello agli esordi fu Charlie Parker, ma anche
Sonny Stitt, Jackie Mclean, Ornette Coleman e Albert Ayler si annoverano tra i
suoi maestri. Maestri ben presto abbandonati perché Massimo Urbani da quasi
subito era solamente Massimo Urbani, IL Massimo.
articolo scritto per
La Stampa di Torino il 25.06.93
So long Massimo
Conobbi Massimo Urbani, nel 1974, quando venne a suonare a Torino con il
quartetto di Enrico Rava. Ebbi la sensazione immediata di trovarmi di
fronte ad un musicista originale, non una fotocopia, più o meno riuscita,
di un musicista americano. Massimo aveva il jazz nel corredo genetico,
facendo sue le lezioni di Parker e di Coltrane e di A. Ayler ( per la sua
carica provocatoria e ludica ) formeranno il suo background, pur conoscendo
bene la tradizione del suo strumento. Amava Benny Carter e Johnny Hodges !
Il suo apparire sulla scena musicale, fu' salutato come un prodigio, ma,
come spesso accade nella storia del jazz, la critica lo incensò, lo viziò,
per poi trascurarlo e dimenticarlo dopo qualche anno.
Soggiornò spesso a Torino, vivendo un rapporto di amore odio con la città, si creò intorno a lui una rete di relazioni, affetti, e amori. Mi pare di vederlo incedere un po' goffo con il sorriso di chi la vita la prende per le corna, lo sento
raccontare dei suoi incontri, con Phil Woods, Sonny Stitt, Sheila Jordan
in un bar di New York, lo sento salutare con quel suo "Yeah man".
Massimo era un uomo inquieto, non sapeva programmare la propria vita in modo
razionale e non suonava come i tanti, troppi ragionieri del jazz. Il suo
equilibrio dipendeva dalla necessità di suonare, sempre. Le sue dita,
piccole e grassocce, si muovevano veloci come saette sul contralto,
producendo note su note che si libravano verso il cielo, perforandolo per
spargere quel suono lirico, virile, struggente, lacerante molto bluesy, per
farlo ricadere sugli ascoltatori attoniti come un pulviscolo fatto di
diesis, bemolle, quinte, settime, blue note insomma. Ecco perché suonava il sax sollevato verso il soffitto, con gli occhi rovesciati all'indietro,
assorto come in stato di trance. Pochi suonavano "Soul eyes " come lui,
inanellava un tema dopo l'altro " Trane from the East " e " You don't what
love is" e le riletture parkeriane "Cherokee, Scrapple from the apple " con
l'amore che Massimo nutriva per il grande "Bird ".
Ora grazie al Dio della musica la sua Arte è immortalata dalla Red Records (non tutta purtroppo) e basta ascoltarla per comprenderne il suo valore.
So Long Massimo......